Stefano Raso intervista a Enrico Caracciolo

Pronti, via. Il primo viaggio, la prima fotografia.
Il primo viaggio, anzi i primi viaggi, in bici con Matteo, amico d’infanzia nel parco di Rivarolo Canavese. Pedalavamo mattinate e pomeriggi interi nel bosco, lungo i viali, nella vigna visualizzando viaggi di portata planetaria. La bici “era la moto” e siccome “eravamo grandi” fumavamo sigarette artigianali fatte con carta di giornale e corde di canapa... E poi sognavo di pedalare sull’Afsluitdijk, la diga lunga circa 30 km costruita nel 1932 che ha creato lo Zuiderzee, il mare interno dei Paesi Bassi. Scoperta su un sussidiario in 4 elementare l’ho percorsa avanti e indietro nel mio immaginario per 9 lunghi anni, fino a quando non l’ho pedalata tutta d’un fiato, controvento. La prima foto? 1973 ad Ascoli Piceno durante una gita domenicale con i miei genitori.

Quando hai deciso di fare questo lavoro?
Con la testa quando ho promesso al professor Enrico Nuzzo, docente di Diritto Tributario alla facoltà di Giurisprudenza Federico II di Napoli, in occasione del mio ultimo esame, molto più faticoso e lungo del giro dello Zimbabwe in bici, che non avrei mai esercitato la professione in campo giuridico. Era la condizione per “ottenere” la promozione visto lo scarso entusiasmo con cui avevo studiato la materia e la mia pessima esposizione.
Con la pancia il momento in cui ho sentito quello che realmente volevo è stato il 31 luglio 1989 nel deserto islandese, pedalando verso Askja: la mia vita è in bici sulle strade del mondo, questo ho sognato, sentito, voluto.
Ho iniziato a fare foto pensando che poteva diventare un lavoro durante il viaggio in bicicletta in Islanda.

Con che attrezzatura fotografi?
Inizialmente ho lavorato con Nikon. La mia prima macchina fotografica era la straordinaria FM. Dal 2000 uso materiale Canon. Al momento utilizzo la Mark II 5D e, quando pedalo ho sempre con me la piccola 450D. Mi piace molto guardare il mondo attraverso il grandangolo, non da lontano ma dentro le situazioni. Ho un attrezzatura minimale. Viaggiando spesso in bici o a piedi devo ottimizzare peso e ingombri. Obiettivi Canon 10-22 mm, 17-40 mm, 50 mm macro, 70-200 mm e 100-400 mm.

La tua bicicletta?
Ne ho varie. La mia Moots da strada è quella con cui mi confido più spesso. L’ha costruita Kent Eriksen, mago del titanio, ma soprattutto uno dei pionieri storici della mountain bike. Vive in Colorado a Steamboat Springs, nel bosco, in una casa autocostruita ed energeticamente autosufficiente. La bici era stata costruita per Andy Hampsten, mio amico che correva in bicicletta. Alla fine non l’ha più usata per il suo ultimo campionato del mondo (1995) e me l’ha regalata per pochi dollari. Ha una certa età ma il suo look è decisamente “sexy”. Poi un’altra bici da strada, una mountain bike e tre bici da viaggio costruite da due artigiani italiani: Andrea Pesenti e Gianni Casati.

Che rapporto hai con la tecnologia?
Mi piace tutto ciò che è semplice e geniale. Il design è un elemento che mi affascina ma uso gli oggetti che mi mette a disposizione la tecnologia come strumenti per le mie attività. Non c’è un interesse per l’oggetto fine a se stesso.

Come si costruisce un reportage?
Arrivando sul posto con la mente libera, pronti ad assorbire tutto quello che c’è intorno: profumi, colori, scorci, luci. Personalmente cerco il contatto con le persone. Mi piace ascoltare, leggere nelle parole e negli occhi. Seguire strade e sentieri. Trovarsi al momento giusto nel posto giusto. Fare foto significa leggere la luce: non sempre la luce è buona. Anzi i momenti di luce migliore generalmente sono improvvisi, inaspettati. Dunque è importante essere pronti. L’intuito aiuta molto e anche l’esperienza. Ecco quindi che programmare una giornata di lavoro è già un limite: il programma è una strada ma le cose migliori si fanno imboccando deviazioni. Scrivere è la stessa cosa. Programmo sempre un tempo adatto a buttare giù appunti, impressioni, considerazioni. Ma regolarmente lo faccio nei momenti più impensati. La postproduzione, una volta tornato da un viaggio, richiede una buona capacità critica. La scelta delle foto, paradossalmente, la faccio dimenticando che quelle foto le ho fatte io. Le implicazioni personali inquinano una scelta che tenga conto del rapporto tra l’immagine e chi la osserva. Esempio: una foto può significare per me qualcosa strettamente legato al momento e al luogo in cui è stata scattata, totalmente estraneo a chi osserva l’immagine. Dunque nella scelta cerco di essere molto distaccato.
Ho imparato questo quando mi sono accorto che art director e photo editor sceglievano le foto per me meno meritevoli di pubblicazione. Indice che gli altri vedono altre foto rispetto a chi le ha scattate.

I rapporti con i tuoi colleghi di lavoro?
Decisamente buoni. Ognuno vive storie diverse ma c’è sempre l’interesse a scambiare idee, opinioni, esperienze. Non c’è uno spirito corporativo e questo mi piace molto.

Cosa vuol dire essere free lance?
Il free lance è per definizione “solo”. Quando si parte su questa strada si sa bene che oneri e onori, difficoltà e soddisfazioni sono una questione personale. Formalmente siamo giornalisti e fotografi ma non abbiamo niente in comune con il giornalista che lavora in redazione. Sono mondi lontanissimi. Essere buoni free lance significa essere responsabili di se stessi, consapevoli che la capacità di adattamento, in tutte le situazioni (viaggio, rapporti umani, professione) è un requisito indispensabile. La precarietà è una costante, è il prezzo della libertà di lavorare seguendo il proprio istinto. Ci vuole energia e spirito positivo. Sempre pronti a rimboccarsi le maniche, con entusiasmo, confidando che l’impegno, l’applicazione, la passione aiutano a scalare montagne e pedalare su strade effettivamente ardue.

I rapporti con gli editori?
Ottimi con chi parla chiaro, rispetta la professione e la persona. Purtroppo non è sempre così ma l’intelligenza del free lance è intuire e capire con chi vale la pena lavorare e chi va evitato con cura.

Hai condiviso lavori o esperienze di viaggio con altri reporter?
Si. Con Vittorio Sciosia ho un rapporto di amicizia e professionale che va avanti da molti anni. Entrambi abbiamo vissuto gran parte della nostra vita a Napoli. Ci siamo incontrati per caso e spesso ci aiutiamo in tutti i modi possibili. Bello il lavoro fatto insieme nei cunicoli e nei misteri di Napoli Sotterranea. Le nostre vite e il nostro lavoro corrono su binari paralleli. Io vivo in Toscana dal 1999, lui è diventato “livornese” da poco. E così ora leggiamo il Vernacoliere, mangiamo i panini alla Barrocciaia e i nostri figli usano il livornesissimo “de”.
Sono in contatto pressoché costante con altri free lance. Ho condiviso esperienze con Enrico Fumagalli, giornalista e fotografo di cui apprezzo il modo di lavorare. Giorgio Roggero, giornalista e appassionato cicloturista. I lavori che mi piacciono di più sono quelli di Paolo Simoncelli. E poi Giorgio Mesturini e Luca Boetti, tutti appartenenti alla “squadra” storica di Itinerari e Luoghi.

Le persone importanti per la tua professione?
Calogero Cascio, direttore di Bici da Montagna e La Bicicletta. Pochi incontri e poche parole ma sempre molto importanti per me. L’unico editore che mi dava del lei quando avevo 24 anni. Una volta mi chiese: “Caracciolo, lei cosa vuole fare da grande?” Risposta: “Il giro del mondo in sella alla mia bici in tre anni”. E lui: “Bella idea, ma poi non si dimentichi di scegliere un punto, un luogo del pianeta da dove partire e tornare. Serve per non perdersi”. Ho capito dopo cosa intendeva. Aveva ragione.
E Paolo Fioratti, direttore di Itinerari e luoghi, una delle idee editoriali più riuscite e apprezzate da turisti e viaggiatori. Quando gli ho proposto il mio primo servizio (Costiera Amalfitana) è stato in grado di dirmi che le foto non andavano bene comprendendo il mio stato d’animo. La mia delusione era enorme ma lui riuscì a non ferire le mie emozioni in quel momento fragilissime. Foto per foto mi ha spiegato con grande sensibilità e chiarezza dove e perché non andavano bene. Sono tornato a fotografare la Costiera e ho riportato nuove foto: per me è stato un esame più difficile e più importante della mia laurea. Per fortuna l’ho superato e da allora metto lo stesso impegno per imparare sempre qualcosa di nuovo. Sono cresciuto con Paolo che mi ha fatto capire molti aspetti della comunicazione fotografica: essenzialità e pulizia dell’immagine.
E poi Caroline Hamille, genio e sregolatezza, direttore di Tutto Mountain Bike, bellissima rivista di settore costruita con gusto, estro e intelligenza. Le piacevano le mie foto e una volta mi disse mentre camminava scalza in redazione: “Le tue foto hanno un’anima. La tecnica è ancora acerba ma farai in tempo ad impararla. La sensibilità è un dono di natura che non si impara”. Infine Marco Albino Ferrari, primo direttore mio coetaneo: condividiamo la passione della bici, abbiamo fatto lavori interessanti insieme e mi è stato vicino in un momento complicato della mia vita.

Dopo tanti anni di viaggi qual’è la ricchezza più grande che ti porti dentro?
Il tesoro e la ricchezza degli incontri casuali. Momenti vissuti in compagnia con altre persone dunque condivisione; momenti vissuti tra i miei silenzi e le mie tempeste interiori, dunque con me stesso. Luoghi dove ho sentito sintonia con l’energia degli elementi e la parte più profonda di me; luoghi che mi vengono in mente improvvisamente durante le mie giornate, magari mentre sono in fila alla posta, mentre prendo un caffè o mentre sto per addormentarmi. Li “vedo” nel momento presente. E poi persone, magari incontrate, conosciute per qualche minuto o qualche ora che mi hanno raccontato, forse senza neanche accorgersene, quanto è bella la vita e quanto bisogna essere bravi e fortunati per viverla bene. Persone che sono ben presenti nel mio sentire, che rivedo spesso nelle foto masterizzate nell’hard disk della mia mente ma soprattutto nei colori delle mie emozioni.

Alcuni luoghi e alcune persone?
Hagavatn e Dettifoss in Islanda. Lita e La Punta in Ecuador. Antsirabe in Madagascar. Grasmere Farm in Nuova Zelanda. Una faggeta del Monte Amiata. Finis Terrae in Galizia. Cimitero delle Fontanelle a Napoli. Chicken in Alaska.
Tra le persone ora mi vengono in mente Waine Eagle ex elicotterista nella guerra del Vietnam incontrato sulla Taylor Highway in Alaska. Vittorio e Celeste Di Felice, due rocce abruzzesi in Tasmania. Alberto Motosso, grande e grosso, buonumore a chili e anima leggerissima, a Imperia. Marco Simon Calò, cicloviaggiatore livornese in Islanda. Armando Baselica, compagno di scuola di Fausto Coppi a Castellania. Regina a Rejkyavik, l’unica islandese che nella storia dell’umanità ha vissuto per sei anni nel rione Sanità a Napoli; e rimarrà l’unica.

Il tuo primo viaggio vero in bicicletta?
In Corsica nel 1982 a 17 anni.

Il tuo primo reportage?
Islanda in bici, su Bici da Montagna, febbraio 1990: 14 pagine.

Le camminate più belle?
Il Sentiero dei Fortini a Capri, il trekking Landmannalaugar - Thorsmork in Islanda e il Tongariro Crossing in Nuova Zelanda.

La strada che ti piace di più in bici?
Da Sassetta a Suvereto, un trionfo di curve in leggera discesa: circa 13 km di benessere, armonia, divertimento insieme alla mia Moots. Su questa strada Andy mi ha insegnato a disegnare le curve più belle e difficili.

Il viaggio più avventuroso.
Con Francesco quando siamo partiti da Ibarra, sulle Ande Ecuadoriane, verso la costa a San Lorenzo. La strada sulla cartina c’era ma nessuno sapeva dire se fosse realmente percorribile. Abbiamo chiesto a 5 persone ottenendo 5 risposte diverse. E allora siamo partiti. Non siamo mai arrivati a San Lorenzo. Tra interruzioni, frane, una notte con gli indios su una palafitta, il nostro sogno è svanito dopo 140 km. La strada non era mai stata completata. Il ritorno sul trenino delle Ande (che ora non c’è più) è stato ancora più avventuroso: sul tetto, abbassando la testa in galleria, prosciugati dalla fatica e dalla disidratazione.

Le strade che ricordi meglio?
Tutte.

La paura più grande?
Essere spazzato via dal vento ai piedi del Vatnajokull in Islanda. Rimetterci le penne alle isole Vanuatu.

Le grandi emozioni?
Il pellegrinaggio a Polsi nel cuore dell’Aspromonte. La danza col morto in Madagascar in occasione del Famadihana. La Fiesta de los Caballos del Vino a Caravaca de la Cruz in Spagna. Pedalare dal Tirreno all’Adriatico con Elsa mia figlia (aveva 2 anni) nel carrellino, arrivando a Osimo nei pressi di Ancona con lei sulle strade dove giocavo da bambino. E’ stata un’emozione molto forte.

Quale eventi ricordi con piacere?
Ciclomundi, il festival dei cicloviaggiatori. La piazza, i bar, le sale comunali di Portogruaro diventano per qualche giorno un luogo d’incontro e di scambio tra appassionati viaggiatori a pedali. Si raccontano storie, si presentano libri. Tutti insieme, scrittori e viaggiatori si conoscono direttamente. La bicicletta diventa un filo conduttore che, nel segno della lentezza e dello spostamento su tutte le strade del mondo, disegna rotte infinite sul pianeta terra.
Molto bello anche Fotografare Parma, iniziativa organizzata dalla NEOS, la mia associazione professionale e il Comune di Parma: per 3 giorni, insieme a 26 colleghi, abbiamo fotografato la città in totale libertà. Molto divertente ma soprattutto un’occasione importante di scambio e condivisione con altri fotografi che forse è più facile incontrare in qualche angolo di mondo casualmente. Per tre giorni tutti insieme, tutti diversi, tutti legati da storie interessanti.

Un libro, anzi due.
Tre. Piccolo trattato di Ciclosofia scritto da Didier Tronchet. Minima Pedalia di Emilio Rigatti. Due piccoli grandi capolavori. Emilio ha anche scritto L’Italia fuorirotta, viaggio nell’Italia delle strade secondarie e dei luoghi meno noti. Bellissima idea.

Come è cambiato il tuo modo di viaggiare?
Fine dei grandi viaggi orizzontali. Non mi piace più l’idea di vagabondare tra due punti lontani della carta geografica. Mi piacciono i viaggi verticali. Si può andare lontanissimo rimanendo nello stesso luogo. E ci si può muovere dentro se stessi, tra la gente, su una sedia anche stando fermi. Per esempio 5 ore al Blu Bar di Formentera ascoltando la risacca del mare e i Pink Floyd. Oppure un pomeriggio nella fucina di Fabio Gonnella, fabbro di Abbadia San Salvatore.

Perché viaggiare in bicicletta?
Con la bici si può volare lontano, basta partire. La strada si snoda nel mondo orizzontale, per un viaggio verticale dentro noi stessi. E così il viaggio assume una valenza autentica. L’importante è andare, scoprire, allontanarsi dai viaggi artificiali dell’era tecnologica dove il corpo sembra servire sempre meno. Non c'è armonia negli spostamenti abituali del comune viaggiare. Il movimento frenetico e compulsivo della continua rincorsa di un tempo materiale mi fa pensare al riempimento di buchi mascherato da "efficienza". La stanzialità di corpi dipendenti dalla tecnologia mi fa pensare alle isole dei famosi dove naufragano anche i sogni; o alla tristissima cyclette che, secondo Didier Tronchet, il ciclofilosofo più famoso, risulta essere “eccitante come un cavallo morto, con le quattro zampe mozzate. Se questa carcassa di bicicletta inchiodata al pavimento avesse gli occhi sarebbero quelli di un’aquila spennacchiata di uno zoo di provincia. Praticare la cyclette è come fare surf in una Jacuzzi”. Senza offesa per gli amanti dello spinning... ma spostarsi è altra cosa.